mercoledì 2 gennaio 2013

LA VITA CHE CONDANNA A MORTE di Dorino Bon


Angelo capeggiava il “branco”. Avanzava deciso e rabbioso verso l’uomo che lo precedeva di alcuni metri. La rabbia stava montando nella sua mente e nelle sue braccia ad ogni nuovo passo che lo faceva avvicinare alla schiena del suo obiettivo, mentre la notte di Roma, con i suoi colori si rifletteva sul bagnato del porfido che sosteneva quegli attimi. Ancora pochi passi veloci e Angelo , rivolgendosi all’uomo che aveva raggiunto, gridò: “sbrirro di merda!”. L’uomo si fermò bruscamente e si girò nello stesso istante che Angelo fece partire la corsa di una mazza da baseball, seguito nello stesso gesto da tutto il “branco”. Angelo aveva sfogato la sua rabbia e consumato la sua vendetta sullo “sbirro” che due anni prima aveva accettato la sua droga, fingendosi un trafficante, arrestandolo e fermando la sua libertà per due anni tra le mura di un carcere.Angelo non fermò la sua violenza. Rovesciò su quel Poliziotto senza nome tutto l’odio che aveva acceso il motore di quel male estremo. Il Poliziotto, prima di spirare, riuscì soltanto ad esplodere un colpo di pistola. Un unico colpo che centrò l’ultimo battito del cuore di Angelo. Nessuno dei due rimase in vita. Nessuno dei due riuscì a conoscere l’atroce verità che li legava. S42716 era il numero impresso sulla placca d’acciaio che identificava il Poliziotto. Angelo era il nome con cui era stata battezzata una piccola creatura che S42716, vent’anni prima al termine dell’ennesimo turno di notte, aveva salvato raccogliendola dal ciglio di una strada. La stessa creatura, che ora diventato uomo ,lo aveva condannato a morte.”

(Dorino Bon)


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